Simone Costa, Capovolto. Il Daimon ritrovato, Robin Edizioni, 2022
Nel palmo di quel mondo c’era notte, stelle e luce
Recensione a cura di Elisa Chiriano
È la prima tappa di un viaggio in cinque parti. Una serie che si preannuncia originale nello stile e nel contenuto. Un romanzo breve, una raccolta di racconti, uniti da un sottile filo rosso da scoprire. Un libro da leggere e rileggere, per suggellare connessioni nelle mille inferenze che arrivano, pronte a disorientare il lettore, nel funambolico intento di trovare l’equilibrio in un gioco di diversi livelli narrativi, spaziali e temporali. Trentotto capitoli brevi e altrettante storie vorticose, che spingono a cercare il senso (spesso contrario) e la direzione (spesso distopica) in una sfida di ruoli, in cui chi legge diventerà gradualmente parte attiva di una ricerca in cui tutto potrà accadere (e anche il suo opposto!). Un intreccio originale di un viaggio onirico, visionario, reale, fantastico, introspettivo e allegorico, che guarda all’immediatezza dell’incontro con ciò che intangibile e attende di essere svelato.
Un gioco di riflessi e riflessioni, di rimandi a ciò che è stato e a quello che giungerà. La narrazione si muove in un universo di immagini inattese, emblemi di una realtà sfaccettata e inafferrabile. Simone Costa ci porta in un viaggio immaginifico e letterario, tra un cielo e l’altro e creature incredibili. Segni e simboli che veicolano significati apparentemente illogici perché, si sa, sognare è un’arte che alimenta la vita vera, mentre la dimensione del sogno diventa meta e percorso al contempo. E sin da subito ci troveremo a essere “personaggi capovolti” di una storia che procede contromano, come i protagonisti del romanzo, che si alternano e si rincorrono, guidati dalle parole di Carnagio, una gazza ladra di sciarpe. La penna e il taccuino di Gargorio cercheranno di fermare le storie, che viaggiano in un perenne fluire e divenire per generare significato attraverso il linguaggio, riportando tutto, in un magnifico giro di corda, al principio: la parola.
“A un tratto, dentro l’aria, sfrecciò una cosa nera: ghermì la vecchia sciarpa, e volando, scomparì. «Hai visto?» disse Aurora. «Una gazza l’ha rubata!» Gargorio aprì il quaderno, e iniziò una nuova storia.” (p.31)
Capitoli brevi, come stralci di vita immaginaria, suggestioni, sogni in un percorso senza meta, attraverso l’inconoscibile, tra realtà e finzione, in un ritmo che scandisce suggestioni a volte antiche e moderne.
Ci si sente bene a seguire i piccoli enigmi lessicali, sintattici e di significati, mediante le regole di un patto sottinteso che mantengono la promessa fatta a chi, leggendo con lo zaino-faldone-zibaldone in spalla, può sbirciare, di volta in volta, oltre la siepe.
L’autore procede con uno stile fortemente evocativo di reminiscenze classiche e non solo. Il protagonista Gargorio, giovane inquieto, sembra un novello Don Chisciotte, pronto a ingaggiare la battaglia contro i mulini a vento, nel caos generato tra realtà e finzione, in una perenne lotta contro i limiti imposti dalla ragione e animato dal desiderio di sognare le l’impossibile sfidando le convenzioni (anche letterarie) del mondo.
Lo scrittore guardava quelle pietre e pensava: cos’è una pietra? Dopo lungo pensare decise che una pietra è una pietra è una pietra è una pietra. D’accordo. Ma forse che una pietra significa qualcosa? No: una pietra in sé, così come un albero in sé, non significa niente.
(Antonio Tabucchi, Doppio enigma)
Un’opera breve solo all’apparenza. In realtà veicola innumerevoli connessioni letterarie e simboliche, che spingono il lettore a soste continue di riflessione, in una narrazione che sembra sospesa e in bilico tra dimensioni contrastanti. Gli eventi si susseguono in un labirinto di connessioni. Gargorio attraversa le vicende della vita che lo portano a incontrare aspetti non noti. In viaggio da Valencia alla volta di Girona e poi innumerevoli e continue ripartenze della mente e della penna, fino a ritrovarsi in una stanza che travolge con i ricordi o è piena di robaccia, in un bazar, nel cielo di Bach o nella sala del Museo del cinema.
Nella prima sala, tra sincopi di luce, scherzavano discrete delle lampade di ferro. Eran le signore in contrastate di quel luogo: un regno d’ombre e luci debitore della Cina. Corpi piani e scuri raccontavano di mostri… o streghe putrefatte protettrici di saperi. Storie di demóni, ingenui oppure astuti, e tutti, tutti quanti, molto ansiosi di potere. Tra queste ombre vere, si trovava anche la Morte: si muoveva lieta su un cavallo senza carne. (p.73)
Assieme a vecchi amici e a nuove conoscenze, intraprenderà un viaggio straordinario, in questo e in altri mondi, alla scoperta di sé stesso e del suo Dàimon. Gargorio è ossessionato dalla propria immagine riflessa, come un’eco che richiama in modalità contrastante Narciso e Dorian Gray. Uomo inseguito da una verità che inganna e da una finzione che sembra vera. Quale sia la verità non è dato di sapere. E forse è proprio questa la cifra stilistica di questa storia, che è fatta da più storie.
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