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Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani 2021, pp. 300

Recensione a cura di Elisa Chiriano

Premio Campiello 2021: giusto merito per una narrazione mai banale, per la caratterizzazione di soggetti imprevedibili quanto enigmatici, per la trattazione fuori dagli schemi, per l’analisi lucida di una vita lontana dagli angusti limiti del conformismo e del perbenismo. Giulia Caminito ci consegna figure in bilico, esistenze sospese e fragili. Tra frammenti di vita, che delineano storie nel continuo divenire della quotidianità, prende forma uno stile fluido, denso e indomito, capace allo stesso tempo di distanziamento e di immedesimazione emotiva. Una penna audace, vera e verace, che riesce a descrivere con pochi incisivi tratti, che sa narrare segnando solchi, che rifugge da sovrabbondanti sovrastrutture linguistiche e sa anche strabordare oltre il confine del non scritto. Un romanzo che trascina e scolpisce i personaggi tra drammi e sogni, mentre la voce narrante ci trasporta nella storia di una madre, che tenta di restare a galla in un mare di ingiustizie, e di una figlia che affonda in un’acqua avvelenata dal risentimento, appesantita da miraggi scadenti e da una cultura che promette ma non mantiene. Tra ossimori, preghiere perpetue e asperità si dipana la vita di Gaia e della sua famiglia. Ci sono due donne, madre e figlia, tormentate da un’esistenza fatta di lotte e coraggio, e c’è il lago, limaccioso e oscuro, che di quella vita è metafora. E poi… c’è quel “ci” che tutto dovrebbe comprendere e quel “noi” in cui Gaia non vuole abitare. La famiglia si regge sulle spalle di Antonia, che deve prendersi cura di un marito bloccato su una sedia a rotelle e dei quattro figli, il primo dei quali avuto da un’unione precedente. La sua vita sembra svolgersi su continui campi di battaglia e lei combatte con eccezionale forza d’animo, senza spargere una lacrima, con ostinazione feroce e tenacia incrollabile. Non scende mai a compromessi, crede nel bene comune e vuole insegnare a sua figlia a contare solo sulla propria capacità di tenere alta la testa. Tutta la sua vita è un arrangiarsi con il poco, con il quasi nulla. Gaia vive all’ombra di questa madre, che le impedisce di scegliere la via e guadagnarsi il cammino. Vittima e carnefice, adolescente in gabbia, con confini fatti di rabbia soffocata e di timidezza che, nutrita di vergogna, sfocia in violenza. A un torto subìto, reagisce con una forza imprevedibile, assuefatta a una vita troppo dura per concedersi il lusso della tenerezza. Fiera e bellicosa, capace di spietata autodisciplina, ma anche scostante e incline ai colpi di testa, è animata da un’aggressività mal padroneggiata e da un rabbioso senso di esclusione. Tra ambiguità, brutture e povertà si snoda una scrittura calibrata, in cui il non detto rende omaggio al talento dell’autrice, che sa fornire al lettore gli strumenti essenziali per andare oltre, nel folle volo.

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